mercoledì 28 settembre 2011

Cinema e letteratura

Cinema e letteratura in ambito Iberico e Iberoamericano si presenta con una forte connotazione diacronica e diatopica, dovuta sostanzialmente al fatto che gli studiosi provengono da ambiti disciplinari molto differenti. Pertanto, gli interventi contenuti spaziano dalla Spagna barocca a quella contemporanea con le sue problematiche in tema di immigrazione e marginalità urbana; dal Messico popolato dai fantasmi di Pedro Páramo al Brasile magico di Guimarães Rosa; dalle cronache di conquiste fallimentari – leggi Álvar Núñez Cabeza de Vaca o Lope de Aguirre – alle vertiginose costruzioni narrative di Julio Cortázar; dalla Colombia di Andrés Caicedo, completamente estranea al Realismo Mágico imperante negli anni ‘60, al grottesco venezuelano di José Rafael Pocaterra. Quasi tutti gli interventi hanno preso in esame il problema e le strategie dell’adattamento cinematografico di un testo, non sempre letterario. A esempio, l’intervento su Werner Herzog si riallaccia alla tradizione di storie sorte dalle testimonianze sulla terribile spedizione lungo il fiume Marañón, mentre altre relazioni hanno preso in analisi film nati dalla letteratura sociologica o dalle inchieste giornalistiche che esplorano il disagio della società contemporanea (in città molto diverse e lontane come Buenos Aires, Madrid).
                                                                                Andrea Pezzè

lunedì 26 settembre 2011

Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges

Dal prologo di Blas Matamoro:

"[...] è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges, una riflessione esistenziale tipica del Ventesimo secolo. L'etica come ricerca e la ricerca come bene morale. Può giungere a noi da luoghi inattesi. Un cuchillero che ne sfida un altro crede nell'ordalia della morte; Emma Zunz confida nella legittimità della sua vendetta; i gauchos taciturni, che formano parte del passato epico degli argentini, giocano il proprio destino a carte, a una payada ingegnosa o a un tragico duello con i coltelli. E non aggiungo nulla su Giuda Iscariota, sui monaci penitenti, sui flagellanti a cui fanno riferimento tante scene borgesiane. [...] Santoro ha esplorato l'opera di uno scrittore del Ventesimo secolo chiamato Jorge Luis Borges. Lo ha fatto partendo dall'assenza del soggetto classico - il Soggetto Trascendentale - e dimostrando che, da un punto di vista esistenziale, a partire da questa assenza uno scrittore può costruire la propria soggettività. Un collega di Borges, John Le Carré, che difficilmente avremmo accostato allo scrittore argentino, dichiarò una volta in un'intervista (El País, Madrid, 27/11/2010): «Non vorrei sembrare presuntuoso ma uno scrittore possiede un solo enigma: la propria vita». Borges avrebbe potuto sottoscriverlo? Credo che Santoro risponderebbe di sì."

"Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" verrà presentato il giorno 8 novembre alle 18 presso la libreria Perditempo a Napoli.

mercoledì 21 settembre 2011

Inchiostro sangue... quante trame ha un racconto poliziesco

Quella che segue è una bellissima recensione scritta da Livio Santoro e pubblicata su quadernidaltritempi. Livio si è da poco unito alla Arcoiris ed infatti è recentissima la pubblicazione del suo "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges", libro che presenterò nel mio prossimo post e che può vantarsi di avere il prologo scritto da Blas Matamoro.

©quadernidaltritempi.eu n. 26 - 1010

Se è vero che tutta la letteratura russa è fuoriuscita dal cappotto di Nikolaj Gogol’, forse si può dire, senza rischiare di esagerare, che tutta la letteratura argentina (e gran parte di quella latinoamericana) è fuoriuscita dalla biblioteca di Jorge Luis Borges. E per rilanciare sul parallelismo, e aggiungere un altro pizzico di fascino, si potrebbe affermare che quanto si è detto è valido non solo per chi è vissuto dopo Borges, ma anche per chi è vissuto prima. E questo, ovviamente, è un gioco a cui molti dei personaggi dello stesso Borges, come per esempio quel famoso Menard che ha scritto il Chisciotte (Borges, 1956, pp. 36-47), hanno giocato. Si prenda il caso di Paul Groussac, che alcuni decenni prima di Borges fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, che alcuni decenni prima di Borges fece ricorso a Arthur Schopenhauer per raccontare una delle sue storie, che alcuni decenni prima di Borges propose variazioni sul tema del giallo, che alcuni decenni prima di Borges morì cieco… ma che da Borges, evidentemente, assunse il tratto del racconto. In un recente volume pubblicato per l’editore Arcoiris, dal titolo Inchiostro Sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata, è proprio un racconto di Groussac, datato 1897 ad aprire le danze.
Questo racconto, nemmeno troppo contorto negli incroci della storia, ha una peculiarità di particolare interesse: la protagonista, ovvero colei che si trova a dover inventare una trama fasulla per coprire le vere dinamiche di un delitto, non è nel delitto in sé che ha interesse, non è nell’utile che si potrebbe trarre da un assassinio che poggia la sua attenzione. Per lei, per Elena, la verità è un’altra: la necessità di dover costruire una trama (che a sua volta sta per l’autore all’interno della trama del racconto) non per il delitto in sé, ma per la sua stessa vita, per la sua propria biografia, per qualcosa che con il delitto non ha nulla a che fare.
Elena è un’orfana, la madre adottiva conserva un tesoro di quattrocentomila pesos. La ragazza, invece, conserva un amore furtivo, vicino dall’esser rivelato. Cipriano, l’amante invisibile, raggiunge la giovane Elena dalla finestra della sua stanza, nascondendosi agli sguardi della madre adottiva della ragazza. Durante una serata di amore rubato, i due amanti sentono delle urla provenire dalla stanza dell’anziana madre di Elena: un uomo ha tagliato la gola della donna e sta tentando di trafugare quanto può. Cipriano, lanciandosi contro il ladro riesce a ferirlo mortalmente, ma egli stesso viene trafitto ad una spalla da una coltellata. Fuggito all’esterno, il ragazzo non farà più ritorno nella casa, ché con la sua presenza non potrebbe che mettere in grossa difficoltà la sua amante sfortunata. La versione raccontata da Elena alla polizia è differente dai fatti: non ha visto nulla, ha solo sentito grida atroci, uno sparo e rumori di una colluttazione, con lei non c’era nessuno. Le investigazioni portano a decidere che due ladri, una volta entrati in casa della madre d’Elena, e dopo aver ucciso quest’ultima, abbiano interrotto la loro complicità per combattersi avidamente l’un l’altro. Il pudore e l’accento di Elena convincono chi l’ha interrogata della giustezza della sua versione. Le altre vicende del racconto, che pur succedono, e che parlano della chiave per accedere alla ricca eredità lasciata dalla donna morta, sono tuttavia marginali, non hanno nulla a che vedere con l’ossatura principale del racconto.
Da chi ha tratto ispirazione Elena?
Anche se apparentemente quanto si sta per sostenere potrebbe sembrare irragionevole, tra gli innumerevoli personaggi di Borges ce n’è uno che, più degli altri, si muove sugli stessi binari dell’Elena di Groussac. Paradossalmente (o forse proprio per questo) quello di cui si parla è un personaggio che abita uno dei racconti dalle note meno fantastiche e meno oniriche della produzione borgesiana: pronunciamo il nome di Emma Zunz (Borges, 1952, pp. 57-64).
La storia di Emma Zunz è grossomodo questa: una giovane donna lavora in una fabbrica in cui si minacciano scioperi e interruzioni di servizio, l’uomo a capo della fabbrica, Loewenthal, è anche un vecchio socio del padre di Emma: proprio per delle sue impunite manovre losche, il padre di Emma pagò l’onta del carcere. Emma, una volta morto suo padre, decide di uccidere Loewenthal per una legittima vendetta. La mattina prima dell’assassinio Emma si finge prostituta, giace con un marinaio senza utilizzare precauzioni, e si reca in fabbrica ripetendo nel pensiero il copione di quello che sarebbe successo dopo. In fabbrica, chiesta udienza a Loewenthal con la scusa di rivelare i nomi di chi fomenta in fabbrica le voci di sciopero, Emma l’uccide con una pistola che già sapeva essere nascosta nell’ufficio. La deposizione davanti al giudice vede Emma denunciare uno stupro da parte del padrone ed una sua strenua difesa con un’arma che tutti sapevano essere custodita nell’ufficio di Loewenthal.
Ecco, Emma ha costruito la sua trama, l’ha resa naturale, incontestabile. Borges, nella frase di chiusura di questo racconto, concentra il precipitato di tutto quello che è stato e che sarà (o al limite che dovrebbe essere) nella letteratura gialla e poliziesca: “La storia era incredibile, effettivamente, ma s’impose a tutti, perché sostanzialmente era vera. Vero era l’accento di Emma Zunz, vero il pudore, vero l’odio. Vero anche l’oltraggio che aveva sofferto; erano false solo le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri” (ibidem, p. 64).
In storie come quella di Emma e come quella di Elena, la verità è un fatto soggettivo, e proprio qui sta l’incontro delle due protagoniste dei due racconti. L’artificio narrativo che sta alla base di questa concessione di verità alla storia di Emma ed a quella di Elena (entrambi gli autori giustificano e rivendicano la legittimità delle storie inventate dalle protagoniste dei due racconti) è l’identificazione del colpevole con la vittima. Il volto delle protagoniste ha, in entrambi i casi, due profili: chi inventa la storia per nascondere un necessario delitto, e chi è legittimato a farlo perché, in fin dei conti, buono.
In questo modo procedono le due storie, proponendo una sottile (in senso fisico) continuità. Questa continuità, che lega gli stessi autori dei racconti, rende Borges ed Elena, Groussac ed Emma personaggi di un’altra storia, una storia che il poliziesco è perfettamente in grado di raccontare.
Tra gli inviti che il poliziesco (ed il fantastico) propone ai propri lettori c’è quello di provare a tracciare delle linee inseguendo puntini, come nei giochi di enigmistica, per scovare quale disegno si cela lì dietro. Ed il lettore incantato, quello ammirato dalle volute della trama gialla, contraccambia questo invito e sa che i puntini non hanno numeri da seguire in sequenza, e che quindi devono essere uniti secondo un’altra logica: quella della trama, appunto. E così è il lettore stesso a diventare un don Isidro Parodi (Borges e Bioy Casares, 1942). Ma dire questo non è aggiungere nulla di nuovo.
Tuttavia capita, talvolta, che la trama stessa continui al di fuori degli angusti limiti che imprigionano i puntini, al di fuori della cornice, e che magari il discorso della narrazione rilanci su un’altra trama, su un gioco a puntate per rimanere in un lessico enigmistico. Quello che succede con Borges e Groussac, per esempio, è proprio questo: una storia che si è scritta da sola, che ha cercato gli stessi accenti nel tempo, a decenni di distanza, e che ha avuto la bizzarria di scegliersi lo stesso scenario, lo stesso palcoscenico, o almeno degli stessi pezzi in parte della scenografia. In questo modo gli stessi scrittori sono personaggi di un’altra trama, più ampia e nebulosa, che può abbracciare indistintamente un genere letterario, una nazione, oppure a livello micro un semplice, piccolo oggetto. Borges, lo sappiamo bene, ha avuto questo proposito in maniera costante in tutta la sua produzione, arrivando a proporsi come personaggio – o come diversi personaggi (Borges, 1975, pp. 11-19; 1960, pp. 92-95) – all’interno delle sue stesse storie. Proprio per questo egli ha anticipato Groussac, nonostante il tempo che evidentemente suggerirebbe di pensare il contrario. Borges ha anticipato Groussac perché ha intuito che la trama di ogni racconto, ma anche quella di ogni poesia o romanzo, appartiene ad una trama più ampia, che sta sopra tutte le altre, che sta sopra gli orizzonti parziali di una storia. Lì, in quella trama sovrastante, il tempo è una cosa che può anche non essere letta come facciamo noi altri: per utilizzare la figura più famosa ed allo stesso tempo più efficace di Borges, questa trama di cui si parla è come un Aleph (1952, pp. 150-170), in cui la contemporaneità (e con essa il passato ed il futuro) non è che un accidente che ha da dire solo allo sguardo dell’uomo. E l’uomo, l’abbiamo già detto, di questa trama non è che un personaggio.

lunedì 19 settembre 2011

Napoli barrio latino. Migrazioni latinoamericane a Napoli








“A volte, sai mi guardo nello specchio e digo: «Oh mio Dio! Ormai che sono?» Sono peruviana senz’altro, però adesso, forse sono sudamericana… pure con mio marito [italiano], lui sa che le mie abitudini ci sono sempre, però ormai pure ho adottato la vostra cultura. A volte mi sento pure un poco perduta per il fatto dell’identità, allora mi digo che sono peruviana però sono anche diventata un miscuglio.” (D., peruviana, int. 11)
"Migrare significa rottura con il passato, scontro con il presente, destabilizzazione, incertezza, ricostruzione del sé, ancoraggio ai miti e tradizioni del paese d’origine per poi ritrovare abitudini, gesti e valori, a distanza di tempo, fusi, decomposti e riformulati in versioni nuove, che degli originali conservano la base, altre volte solo il ricordo o il nome perché, invece, trasformati in qualcosa di nuovo, di ibrido, di fortemente rinnovato."

(Maria Rossi, Napoli barrio latino, p. 222)

Quello di Maria è uno dei libri a cui sono più legata in assoluto, e non solo fra quelli che ho pubblicato. Al di là della validissima e precisa analisi fatta, partendo dalle implicazioni emozionali che portano l'immigrato ad allontanarsi dal paese d'origine, spesso lasciando figli appena nati, fino ad arrivare al loro insediamento/scontro con la città d'arrivo, passando attraverso l'associazionismo e l'integrazione di chi in alcuni casi finisce per avvertire una molteplicità di appartenenze, importantissime e fondamentali sono le testimonianze orali dei latinoamericani che vivono tutto questo in prima persona, accompagnati quotidianamente da  quello che è il male dell'immigrato: la nostalgia. Non tutti possono conoscere e comprendere il dolore di coloro che sono costretti a scegliere fra il cuore e la convenienza, la necessità di sopravvivere, quando l'unica cosa che avrebbero voluto sarebbe stato vivere nel paese che li ha visti nascere.

"Napoli, principale porta d’ingresso dei flussi migratori meridionali provenienti prevalentemente da Africa, Asia ed Europa dell’Est, si caratterizza attualmente anche come spazio di insediamento di un “nuovo” gruppo migrante, quello proveniente dall’America Latina; da quel continente dove migliaia di meridionali, nell’epoca della grande migrazione, si sono diretti in cerca di fortuna.
Un’inversione dei flussi dunque, composti solo in minima parte dai cosiddetti ritornati ma piuttosto formati da immigrati molto eterogenei per provenienza, motivazioni e composizione.
A Napoli, come in qualunque altro spazio di immigrazione, si opera un rimodellarsi vicendevole, una negoziazione costante che oscilla tra stereotipi e somiglianze -vere o solo paventate-, tra riconoscimento e folklorizzazione alla ricerca di un’integrazione che chiami al dialogo entrambe le parti in questione.
Molti dei latinoamericani intervistati hanno definito l’Italia un sogno, il mito da conquistare, moderna America nella quale fare fortuna. Essi considerano il viaggio che intraprendono, spesso verso una meta conosciuta solo attraverso i racconti di amici e familiari, l’occasione di una vita, proprio come quella che i nostri emigrati rincorsero nelle terre americane. La mitizzazione del paese d’arrivo, l’Italia nel nostro caso, si scontra con una realtà ancora troppo disabituata all’alterità.
Da quando l’Italia si è “scoperta” paese d’immigrazione, anche nel nostro paese si è intrapreso un lungo cammino, tutto in salita, di analisi del rapporto tra “noi” e “loro”. La presenza di immigrati fa riflettere la società detta d’accoglienza su se stessa, scatena l’analisi dei discorsi, delle politiche, degli atteggiamenti che vi si producono, dell’identità che si rivendica.
Oggi, come allora, è ancora il dominante a dettare le regole del gioco. Le trasformazioni del mercato globale spingono milioni di latinoamericani ogni anno a lasciare il proprio paese e riversarsi, nella maggior parte dei casi, in quelli soggioganti. Sono migranti dall’identità complessa e ibrida, perché latinoamericana, resa problematica da un passato importante e incombente, quel peso coloniale che ancora soffrono e rivivono nelle società d’arrivo, stigmatizzati perché le loro facce mantengono i tratti somatici dei popoli colonizzati della storia, e perché le società in cui cercano di migliorare la loro condizione riservano loro posizioni subalterne sia a livello economico che sociale, ovvero lo status di moderni colonizzati.
Affinché il gruppo dei latinoamericani, ma in senso lato i gruppi immigrati di qualunque nazionalità e origine, possano svilupparsi pienamente in comunità, è necessaria, se non fondamentale, la piena partecipazione della società d’arrivo in un percorso che diventa dialogico e che attribuisce ai due interlocutori lo stesso valore."

Ed in questo l’Italia ha ancora strada da fare.

venerdì 16 settembre 2011

Inchiostro sangue. L'assassino viene da Buenos Aires


Dario Pappalardo, Venerdì di Repubblica, 5 marzo 2010:
"Buio, passi nella notte, pistole cariche, Buenos Aires. Il noir si addice all'Argentina. Questa eterogenea raccolta di racconti e saggi di autori (tra cui Piglia e Sasturain) lo dimostra. Anche poche pagine fanno un racconto giallo perfetto. Leggere le otto di Giardinelli per averne un'idea. In appendice quattro saggi."


Come precisato dai curatori di questa antologia, Loris Tassi e Antonella De Laurentiis, "sebbene il poliziesco non abbia (più) bisogno di difese e non necessiti certo di presentazioni, riteniamo comunque doveroso spendere due parole sui criteri adottati per la selezione del materiale. In primo luogo la nostra antologia non ha la pretesa di riassumere i circa centoventi anni di storia del genere poliziesco in Argentina nè di offrire una panoramica esaustiva delle origini fino ai nostri giorni. Abbiamo scelto un altro percorso. Considerando che, come sostiene Ricardo Piglia, ogni scrittore è un criminale, come ostinati detective abbiamo cercato di scoprire alcuni crimini nascosti (sia chiaro, nascosti solo in Italia). Scopo dell'antologia, dunque, è fornire per la prima volta al lettore italiano la possibilità di conoscere altri racconti polizieschi, perle che non sfigurerebbero affatto se messe a confronto con le grandi opere di autori come Borges o Rodolfo Walsh.
Iniziamo (con) L’indagine: chi è dotato di buona memoria può vantarsi di aver trovato il nome di Groussac in un breve testo di Borges; un lettore scettico, propenso a congetture attorno all’identità degli individui, potrebbe aver dubitato dell’esistenza reale di questo sarcastico poligrafo francese e potrebbe perfino averlo scambiato per l’ennesimo strambo erudito inventato da Borges. Ma Groussac non è Pierre Menard (Pierre Menard potrebbe forse essere anche Groussac) e non merita di essere ricordato solo per il breve omaggio contenuto in Discussione. Groussac è soprattutto l’autore del primo racconto poliziesco pubblicato in Argentina: L’indagine, o meglio La pesquisa, compare nel 1897 su «La biblioteca», ma la prima versione, El candado de oro, risale addirittura al 1884. Il grande cuentista Horacio Quiroga non ha bisogno di commenti, ma forse solo di una precisazione: autore versatile come pochi, non si è dimostrato certo restio ai richiami del poliziesco. Il triplice furto di Bellamore, pubblicato nel 1903, risulta singolare probabilmente perché, molto prima di Borges e Bioy Casares, si presenta come una parodia del racconto poliziesco: da un lato, dimostra da subito la sua cattiva fede, il suo essere artificio, finzione, per dirla con parola borgesiana; dall’altro, nel finale, avanza dei seri dubbi sulla risoluzione del mistero. Il lettore, a questo punto, dopo essere risalito alle origini del racconto poliziesco rioplatense può, con un brusco cambio di rotta, seguire alcune piste che dimostrano l’importanza della letteratura hard-boiled in alcuni scrittori a partire dagli anni Sessanta. Passiamo dagli enigmi alla scuola dei duri; dal gioco intellettuale, rassicurante e bonario, che vede trionfare la Legge e la Giustizia, a un gioco pericoloso, inquietante perché troppo simile al mondo in cui viviamo, da cui sovente si esce sconfitti. Ricardo Piglia, autore del romanzo Soldi bruciati, un noir magistrale, è presente con due testi: La pazza e il racconto del crimine, premiato in un concorso del 1975 da lettori che si chiamavano Borges, Roa Bastos e Denevi, e Il genere poliziesco, inserito nella sezione dedicata al saggio, che ci permette di conoscere il punto di vista di uno scrittore fondamentale per la diffusione del genere in Argentina. Ricordiamo che Piglia nel 1969 ha diretto «Serie negra», collana paragonabile per importanza a «El Séptimo Círculo» di Borges e Bioy Casares.  Poche pagine servono a Mempo Giardinelli per costruire l’asciutto e implacabile Il tipo, un altro omaggio, stavolta a I sicari di Hemingway, racconto che, come sostiene Piglia, per la letteratura hard-boiled ha la stessa importanza che ha avuto Gli omicidi della Rue Morgue di Poe per il romanzo d’enigma. Sasturain, conosciuto in tutto il mondo per essere l’inventore di Etchenike, uno dei pochi indagatori memorabili della letteratura contemporanea, oltre che per il fumetto Perramus, partecipa con Inchiostro di sangue, racconto labirintico e proteiforme con il quale lo scrittore ha vinto nel 1990 il prestigioso Premio Internacional Semana Negra de Gijón. Di un grande eccentrico della letteratura ispanoamericana, l’uruguaiano Mario Levrero, autore negli anni settanta del comico e delirante (a partire dal titolo) Nick Carter se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo, abbiamo scelto l’onirico Confusione nel noir e di Carlos Gamerro l’audace Quelli che hanno visto passare il re, un brillante tour de force narrativo che si ispira a un caso di cronaca nera avvenuto a Buenos Aires negli anni Novanta.  Juan José Saer, noto in Italia soprattutto per lo splendido romanzo L’indagine, è presente con un omaggio, a tratti velenoso, a uno dei padri della narrativa hard-boiled: Raymond Chandler.  Completano l’antologia Avvicinamento alla letteratura poliziesca. Un dialogo di Loris Tassi e Digressioni argentine su crimine e mistero di Andrea Pezzè.
Lasciamo ora al lettore il piacere di visitare i luoghi del delitto."

giovedì 15 settembre 2011

L'Altra America, da dove tutto è partito

E' stato il primo libro pubblicato da Arcoiris, figlio dell'inesperienza ma anche della voglia di iniziare, partire con un progetto in cui credessi e con tanta voglia di crescere professionalmente. Sono passati quasi due anni da quando è uscito questo libro che in molte occasioni mi ha riempito d'orgoglio, che mi ha aperto nuove porte e fatto stringere nuovi contatti. Tutto nacque per caso nell'estate del 2009, quando lessi per la prima volta il blog di Antonio Pagliula, verosudamerica.com, e subito gli proposi di trasferire su carta quello che fino ad allora formava parte del suo blog. Antonio accettò subito con entusiasmo e mi propose di coinvolgere Piero Armenti, autore di notiziedacaracas.it. E così è partito questo viaggio che ci ha portato alla pubblicazione de "L'Altra America. Tra Messico e Venezuela, storie dell'estremo Occidente", libro al quale devo tutto quello (per ora poco) che ho potuto realizzare in ambito editoriale.
Qui di seguito ripropongo la recensione di Angelo D'Addesio del 23 novembre 2009 e che può essere letta anche su http://angelodaddesio.nova100.ilsole24ore.com/2009/11/laltra-america-dei-bloggere-non-chiamateli-nanetti.html  
Buona lettura 


L'altra America dei blogger... E non chiamateli "nanetti"

Due paesi di confine che guardano all’universo latino e sono a loro volta “osservati speciali” del colosso americano. Due blogger che raccontano la loro “America” ripercorrendo la loro esperienza pluriennale nel paese. Piero Armenti dal Venezuela ed Antonio Pagliula dal Messico con “L’Altra America - Tra Messico e Venezuela storie dell'estremo Occidente” edito da casa editrice Arcoiris Multimedia (acquistabile sul sito o nelle librerie ad € 12,00) dimostrano come semplici frammenti virtuali possano raccontare la storia recente di un paese e della sua gente. Si definiscono “nanetti” dell’informazione, ma hanno subito reclami e proteste, hanno saputo vedere sia l’estetica che la sostanza, segno che dal basso e fra la gente si vede molto più che dietro una scrivania. E’ l’America Latina 2.0 quella che torna su un libro ed i due autori ce ne spiegano motivi e retroscena, senza nominare (sopresa?) una sola volta le magiche parole "Chavez" e "narcos".
D. Il titolo del libro è “L’altra America”. Che cosa significa per voi questo titolo e cos’è per voi l’altra America alla luce dei paesi in cui vivete ed operate?
 
Piero Armenti: “L’altra America” non è di certo un termine nuovo, noi l’abbiamo scelto per sottolineare il contenuto sperimentale del libro, l’America “altra” perché raccontata dai blog, “altra” perché non è quella del Nord, ma è “altra” anche perché ha una sua autenticità, frutto di un percorso storico irripetibile che ha reso il Sud America il continente dove colonizzatore, autoctono e schiavo, sotto forme diverse (almeno in certe zone), hanno creato qualche cosa di nuovo, e non era accaduto mai né negli Stati Uniti né nell’India colonizzata dagli Inglesi, né in Africa.
Antonio Pagliula: Quando si parla di America generalmente ci si riferisce agli Stati Uniti, noi invece volevamo presentare tutt’altra realtà. Esiste appunto un’altra America, che non è quella conosciuta ed inseguita da sempre da noi italiani, non è quella dell’american dream, ma è ugualmente reale e rappresenta un altro tipo di sogno, agli antipodi degli Stati Uniti, con caratteristiche totalmente differenti.

D. Messico e Venezuela ovvero due paesi “al confine” sia logisticamente che politicamente. Quanto è stato determinante per costruire un libro al di là dei luoghi comuni e delle notizie di tutti i giorni?

Armenti: Messico e Venezuela rappresentano due paesi su cui si giocano partite importanti per il futuro, il Venezuela è una potenza energetica, da questo punto di vista è il paese più “mediorientale” dell’America Latina, non dimentichiamo che ha ispirato l’Opec. Il Messico rappresenta il problema per eccellenza negli Stati Uniti: la frontiera, gli emigranti, il narcotraffico. Non dimentichiamo che dal Messico è spuntato il subcomandante Marcos, il cui movimento ha anticipato in epoca di euforia neoliberale ciò che sarebbe avvenuto in futuro in tutto il mondo.
Pagliula: Il Messico è senza dubbio un paese al confine, rappresenta appunto l’Altra America. Il confine tra Messico e Stati Uniti marca una differenza sostanziale tra Nord e Sud, una sorta di muro di Berlino moderno che divide e separa realtà contrapposte. Basta vivere la vita quotidiana in Messico per superare facilmente i luoghi comuni e affrontare la realtà per quanto cruda e d’impatto possa essere.

D. L’immenso continente sudamericano potrebbe diventare un osservatorio speciale da cui poter estrarre idee, movimenti esportabili anche in altre parti del mondo?

Armenti: Forse un ritorno alla frugalità l’America Latina ce la può insegnare, magari non il Venezuela, ma penso alle Ande. Rampini nel suo libro Slow Economy sostiene che per il ritorno alla frugalità bisogna guardare all’Oriente, io credo che l’America Latina in più abbia anche una certa gioia “nella vita” che affascina molto chi arriva dall’Europa: si può essere felici con poco. Sembra un discorso troppo moralista, ma oramai se ne stanno convincendo tutti: è l’urgenza di questi anni sconfiggere il turbo-consumismo.
Pagliula: Se parliamo di movimenti sociali e politici, per quanto essi affascinanti ed interessanti,  non credo che siano esportabili alle nostre realtà. Quello che accade qui è figlio di queste terre, personalmente a me non piace lo spirito di chi vuole fare le rivoluzioni nel paese altrui o chi crede di poter importare questi movimenti o filoni politici. Le novità per cui l’America Latina è stata negli ultimi 10 anni un osservatorio speciale si devono a democrazie non ancora mature che permettono soluzioni differenti, quindi per quanto mi riguarda è giusto osservare bene cosa succede da questa parte del mondo a livello socio-politico ma sarebbe superficiale pensare di importarlo in altri continenti.
  
D. In numerosi capitoli-post del vostro libro parlate dell’italiano medio in fuga verso il sogno ed il paradiso sudamericano. Cosa direste a quell’italiano del vostro inferno e paradiso in America Latina?

Armenti: Che ne vale la pena. Lo diciamo sempre: lo si fa per se stessi. E’ un gesto di ribellione individuale contro la tristezza in cui annaspa l’Italia. Le economie avanzate si stanno scoprendo crudeli verso le nuove generazioni: noi siamo insoddisfatti e infelici. E d’altronde se studi architettura e poi finisci cassiere è normale sia così. Allora bisogna inventarsi traiettorie di vita nuove. In America Latina si può essere felici, se solo fosse un continente non violento sarebbe davvero un paradiso. Dal Messico all’Argentina.
Pagliula: Ci sono diversi tipi di immigrazione al giorno d’oggi, non è più come una volta. Sicuramente però lo consiglierei come esperienza di vita. Allo stesso tempo però metterei in guardia che di vero e proprio paradiso c’è poco, ripeto ci si specchia con povertà, violenza ed ingiustizia sociale, però l’America Latina ti dà la possibilità di tornare alla semplicità delle piccole cose, ai sorrisi per strada, ai rapporti interpersonali genuini e non forzosamente interessati. Ci si può ritrovare ad essere felici anche con poco, realtà che si contrappone alla europea di infelicità cronica, insoddisfazione sul lavoro, tristezza e scarse relazioni interpersonali.

D. Una provocazione. Se due blogger mettono nero su bianco ciò che hanno scritto sul web, dobbiamo considerarlo un gesto di riscatto del 2.0 (o 3.0) sulla carta stampata o l’ammissione che la visibilità in fondo viene sempre dal fruscio del libro?

Armenti: Di base c’è un’altra rivoluzione: la stampa digitale permette di abbassare i costi per stampare un libro, e quindi facilita prodotti sperimentali come il nostro. Volevamo semplicemente lasciare testimonianza di ciò che abbiamo visto e fatto. Non è un libro ambizioso, è un libro di formazione, con tutti i limiti. Io personalmente sto lavorando ad un grande lavoro sul chavismo, di tutt’altra caratura.
Pagliula: Il blog ha una forma di comunicazione immediata, day by day, però portato alla carta stampata assume continuità e riesce a far emergere altre sfaccettature anche sul pensiero dell’autore. Penso che le due forme di comunicazione non si escludono, poi alla fine per quanto mi riguarda si rimane blogger, il libro non era programmato, è stata una proposta di una casa editrice giovane che abbiamo accettato ed eccoci qua.

D. Ci sono tanti episodi, fatti di cronaca, storie inseriti nel vostro lavoro. Potreste raccontarci che cosa, presente oppure no nel libro, vi ha colpito particolarmente nella vostra esperienza nei rispettivi paesi durante questi anni?

Armenti: La costante latinoamericana: anche nei momenti più disperati, non si perde la speranza e si lotta. La mancanza di rassegnazione, che è anche una chiave che ha favorito la nascita dei movimenti.
Pagliula: Quoto la risposta di Piero, anche se con piccole differenze a seconda dei paesi e delle latitudini, posso dire che in America Latina non ci si rassegna davanti a nulla, a tutto c’è una soluzione e quasi mai ci si dà per vinti. Anche se in situazioni tristi e disagiate non si perde mai la speranza in un cambiamento.

D. Che cosa vorreste si dicesse del vostro libro dopo averlo letto fino all’ultima riga?

Armenti: Che ci sono spunti interessanti. Più in generale ci auguriamo che i rapporti tra l’Italia e l’America Latina si incrementino, ma per fare questo è necessario favorire l’approssimazione culturale. Per esempio credo sia utile dare borse di studio per permettere ai latinoamericani di conoscerci e viceversa.    
Pagliula: Che siamo riusciti a dare varie sfaccettature della realtà latinoamericana aiutando a superare qualche luogo comune e qualche pregiudizio. Sarebbe già tanto, non abbiamo la pretesa di insegnare nulla a nessuno ma solo di raccontare quello che abbiamo visto e vissuto.

martedì 13 settembre 2011

"C'era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, i libri invece godono di eternità. Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver." (Amos Oz)


Vado dritta al punto, non amo fare mille giri inutili e quindi ammetto sin da ora che sto dando vita a questo blog perchè ho bisogno di un ulteriore modo per promuovere i libri che pubblico fra una difficoltà e un'altra.
I post saranno scritti da chiunque vorrà collaborare con me, basterà che mi mandiate tramite mail il pezzo che avete scritto, e qui faccio appello agli autori già pubblicati da Arcoiris, e va da sè che si potrà parlare di libri (anche pubblicati da altre case editrici ovviamente!), cultura, società... con una particolare propensione all'America Latina, terra immensamente amata e che da anni è parte di me.
Buona lettura a chiunque vorrà farmi compagnia.

Barbara